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Coppedè e il contemporaneo


Il discorso è lungo, noioso e complesso. È un discorso sul rapporto tra l’architettura e il contemporaneo, ma anche sul concetto di bello e di giusto. In poche parole è un discorso che potrà sembrare polemico e che non piacerà a molti che mi leggono, ma mi tocca farlo perchè qualcosa sul Quartiere Coppedè ormai la so.

Parliamo del “palazzo di via Ticino”, querelle tutta romana che ruota intorno all’abbattimento di un palazzo degli anni ’30 del Novecento, poi sopraelevato negli anni ’50, e che ora i proprietari vogliono sostituire con una nuova architettura composta da un edificio con sette appartamenti, sette cantine e quattordici parcheggi che si preannuncia “orribilmente” contemporaneo.

Il problema di questo palazzo è che è stato costruito a fianco di quelli belli, famosi e unici del Quartiere Coppedè, e quindi da alcuni viene considerato come un elemento accessorio fondamentale per il decoro urbanistico della zona. Da qui la facile polemica.

Una polemica alla quale non volevo partecipare, perché i problemi di degrado in cui versano gli edifici firmati dall’architetto fiorentino per me sono più gravi e dolorosi. Qui segnalo il degrado devastante delle facciate dei palazzi degli Ambasciatori, in cui stanno scomparendo decorazioni fondamentali per comprendere il valore artistico dei palazzi, o la condizione della Fontana delle rane, mangiata dal muschio neanche fossimo a Bomarzo, oppure i parcheggi selvaggi che inghiottono letteralmente gli spazi architettonici e soffocano tutto.

Penso quindi che sia giusto rimettere le cose nella giusta prospettiva e lo farò sorvolando sulla notizia forse poco conosciuta dell’opinione bruttissima che d’Annunzio aveva di Coppedè (e già questo potrebbe farvi riflettere), ma limitandomi a citarvi invece l’episodio che ha coinvolto il nostro architetto quando ha realizzato il palazzo in via Veneto n.7, nel 1927, proprio come Alessandro Rinolfi fa oggi.

Goffredo Bellocci scriveva in un lunghissimo articolo intitolato “Proteggiamo la bellezza di piazza Barberini” pubblicato su “L’Epoca” il 16 giugno 1925 e con il quale mi pregio di tediarvi per completezza di informazione (del resto vi avevo avvertito che sarebbe stato lungo):

La Società che ha acquistato l’area dei Cappuccini ha affidato il compito di alzare il palazzo che chiuderà la piazza Barberini e aprirà a destra la via Veneto a un ingegnere e architetto di un certo nome, il Coppedè, il quale qui a Roma ha dato prova di sé nel nuovo quartiere di là dalla piazza Quadrata. Non discuto e non voglio discutere l’architettura del Coppedè: sarà originalissima ed ottima, ma non conviene alla tradizione romana, ma è alla romanità una vera e propria offesa. Ho veduto di questo architetto gli edifici che ha costruito a Genova, e mi sono persuaso che egli ha cercato e conquistato un suo stile moderno, del quale il palazzo compiuto a Roma è un esemplare quasi austero. Però temo per piazza Barberini e per via Veneto. Le nostre città hanno avuta ciascuna dai secoli un organismo artistico che le fa originali: pensate a Roma, a Firenze, a Siena, a Venezia, a Bologna. E gli architetti dei secoli scorsi pur innovando le forme delle chiese e dei palazzi, han saputo essere romani a Roma, fiorentini a Firenze, e così via. L’ingegnere Coppedè invece, non ha tenuto nessun conto a Genova della tradizione di Galeazzo Alessi, a Roma di quella che vanta i nomi dell’Alberti, del Bramante, del San Gallo, del Bernini, del Borromini e che ritroviamo viva così nel Sei e nel Settecento col Valvassori, col Fuga e con il Galilei come – miracolo – nel più tristo periodo dell’Ottocento con gli eclettici, dal Kock al Podesti. Padronissimi i genovesi di edificar quartieri di spirito e di forme tutt’altri da quelli tradizionali di Genova; ma a parere mio non dovrebbero essere padroni di venirci a piantare un palazzo straniero nel mezzo di Roma, a riscontro di quel bel palazzo Barberini, che mostra dai fianchi del Maderno alla facciata del Bernini e alle scale e alle finestre del Borromini che dall’architettura della controriforma si sia potuto passare a quella barocca borrominiana restando romani. Non mi muove a parlare odio all’arte nuova; ma l’amore di Roma e la persuasione che la vera originalità sia di  coloro che meglio conoscono il passato come i frutti più saporosi son degli alberi che hanno più profonde radici nel terreno. Del resto, abbiamo una schiera di giovani e di giovanissimi, che danno prova di essere originiali senza rompere i vincoli con la tradizione, Dalla, Bazzani, al Limongelli, dal Piacentini e dal Brasini al Venturi, per non dire di altri. Il vero è che l’architettura, nel suo necessario svolgimento, organico e decorativo, ha sempre mutato per gradi le sue forme: è accorso quasi un secolo per passare dalla chiesa a un piano alla chiesa a due piani, più di un secolo per conquistare il tipo del palazzo romano. Il nuovo edificio chiuderà una piazza che deve essere sistemata secondo un disegno davvero ottimo del Piacentini, e aprirà una strada che fu nelle sue parti inferiori e media compiuta da architetti rispettosi della tradizione romana, se eccettuiamo il Busiri che diede all’albergo Palazzo forme, dirò boccaccescamente, strane e diverse. Via veneto è la strada nella quale l’eclettismo del tempo di re Umberto ha fatto le sue migliori prove con il palazzo Balestra e il palazzo della Regina Madre, e che si arricchirà tra poco dell’Albergo degli Ambasciatori, originalissimo, ma romanissimo. Io domando dunque a Vitruvio, che dagli Elisi ispiri l’architetto Coppedè a disegnare una facciata e a costruire un palazzo che convengano così alla piazza come alla via; che compiano un organismo architettonico e non lo rompano con troppa offesa al senso estetico dei romani. Alla dottrina tecnica del Coppedè fo di cappello: vorrei che egli la disciplinasse, non al mio talento, o al capriccio della popolazione, o alla rivalità degli altri architetti, ma alla maestà di Roma.”

Se siete arrivati alla fine non credo che ci sia da aggiungere molto altro, confido nella vostra intelligenza perché risulta evidente che l’architettura contemporanea non piace mai ai contemporanei, ma se non ci fossero gli architetti contemporanei non ci sarebbe più l’architettura.

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