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E’ Maleducato fare le smorfie – Franz Xaver Messerschmidt e i suoi “Busti fisiognomici”


Vi capita mai di fare le smorfie davanti allo specchio? E vi capita mai di chiedervi perché le fate? Franz Xaver Messerschmidt, scultore tedesco settecentesco, ha scolpito le smorfie sue e di altri in almeno 60 busti, che vengono definiti la serie dei “Busti fisiognomici”.

Queste opere, realizzate con una tecnica talmente sublime da farle definire “iperrealiste”, ovvero opere appartenenti ad un genere di arte contemporanea anche se scolpite nella seconda metà del Settecento, gli hanno portato una fama ambivalente che non solo esalta la sua eccezionale bravura tecnica, ma ne giustifica il genio come espressione di patologie psichiatriche che lo portarono a ritrarre ossessivamente questi soggetti.

La storia di Messerschmidt è costruita sui “sentito dire” e sul resoconto dell’incontro tra l’artista e lo scrittore ed editore Christoph Friedrich Nicolai,  che appunto trascrisse le sue impressioni sottolineando i lati eccentrici delle loro conversazioni. Questi lati divennero oggetto di studi accademici della nascente disciplina medica della psichiatria e portarono alla costruzione di una teoria interpretativa concentrata sul ruolo dell’opera d’arte come espressione di disagio mentale.

Ho incontrato Messerschmidt per caso, a Parigi e a Vienna, non lo conoscevo e non ho pensato, guardando quelle teste così perfettamente vive, che fosse l’opera di un pazzo, ma di un artista completo che possedeva un’abilità unica ed esaltante.

Il mio primo pensiero è stato al Bernini ed ai suoi colossali stemmi realizzati nella decorazione del Baldacchino bronzeo della Basilica di San Pietro. Qui, il genio, perché su questa genialità la critica concorda, oltre alle api araldiche, rappresenta simbolicamente il concetto della “Mater Ecclesia” mediante una serie di sei volti femminili  colti nelle espressioni delle varie fasi del travaglio e del parto. Una piccola carrellata del dolore e del sacrificio che precede la gioia della nascita. La differenza tra le due serie di opere è che quella berniniana ha una genesi ampiamente documentata, per non dire ricca, che ne testimonia intenti e committenza, mentre quella del nostro artista tedesco non può avvalersi di notizie su committenze o motivazioni che non siano state dedotte da conversazioni con terzi.

Quindi le donne non hanno niente di misterioso, mentre i busti fisiognomici racchiudono un segreto che può essere variamente interpretato a seconda della comodità. Un segreto che però trova la sua spiegazione più comoda nella pazzia, a sua volta la spiegazione per quelle azioni che non hanno intenti dichiarati e conformi alle norme del vivere comune.

La strada intrapresa dai miei ragionamenti mi porta così a riflettere sul confine che, secondo alcuni, esiste tra creatività e patologia. Ma non ritrovo logico accostare un’esperienza creativa ad una di sofferenza psichica. La creatività rappresenta comunque un’espressione “dell’io” che non può essere classificata secondo i termini dell’equilibrio mentale, essendo, per sua natura, espressione di pulsioni profonde, soggettive e necessarie per ogni individuo, quindi “sane” perché espressioni stesse della vita.

Questi soggetti insoliti, così personali, così profondi nella completezza delle loro forme, diventano talmente stupefacenti da essere inspiegabili e quindi inclassificabili. Ma rappresentano anche un esempio ed insieme un monito che vuole ricordare come ogni teoria può avere il proprio rovescio e come spesso non sia necessario trovare per forza una spiegazione alle cose.

Forse Messerschmidt stava costruendo un percorso artistico rimasto incompiuto per la sua morte prematura che invece, una volta completato, avrebbe svelato al pubblico.  Forse i busti rappresentano una ricerca fisiognomica coerente con il periodo illuminista in cui ha vissuto, oppure l’artista aveva intenzione di proporre qualche cosa che nessuno aveva mai fatto prima, o semplicemente gli piaceva la sfida tecnica di questo tipo di immagine.

Così, quando guardo questi uomini così concentrati nel movimento del loro volto, ritorna la domanda iniziale: perché facciamo le smorfie davanti allo specchio? e la mia risposta è: forse perché ci hanno insegnato a non farle in pubblico.

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