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La lingua batte dove il dente duole


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Lo sappiamo tutti che ho un sacco di difetti, tra cui il principale è lamentarmi. Il lamento si collega naturalmente ad un malessere generale che nasce a sua volta da una serie di piccole e grandi patologie psichiche e fisiche, in poche parole, non si può pensare che un’ipocondriaca non si lamenti e non si può pensare che un fondo di verità, nella sofferenza di un ipocondriaco, non ci sia.

Tutto questo giro di parole per dire che, dopo secoli di tentennamenti, ho raggiunto la conclusione che avrei dovuto andare dal dentista, che nell’elenco delle mie paure patologiche è subito dopo “morte” e prima di “pidocchi”.

Potrei girarci intorno quanto voglio, ma l’idea di uno che mi mette le mani in bocca e ci ravana dentro mi crea uno stato d’ansia talmente alto da rasentare a volte lo svenimento, e non è solo la somma dei traumi infantili, il mio primo dentista era uno slavo alto un metro e cinquanta che aveva la delicatezza di Mengele, ma anche per fatti oggettivi: ho la bocca piccola, stringo i denti di notte, da qui ho sempre un’infiammazione che mi impedisce di “aprire la bocca grande grande” come dicono loro, e che mi fa stancare dopo qualche minuto mentre, se muovono male le dita, mi viene subito il riflesso del vomito.

Quindi già abbiamo un problema sulle basi: io la bocca non la voglio aprire, e questo naturalmente non depone a mio favore.

A seguire si aggiunge il terrore del sangue: è matematico che passi la metà del tempo con la testa dentro quel  mini-water che chiamano lavandino o a sputare sangue o a cercare di non vomitare per il riflesso condizionato.

La tensione che emano è talmente alta che di solito i dentisti si spaventano, ma devo dire che fino ad oggi non ho ancora mai morso nessuno, forse sputacchiato qualcuno con enfasi, ma morso mai.

Che poi io non ce l’ho con i dentisti, anzi li stimo, fanno un lavoro che non potrei mai fare, hanno una pazienza che io non avrò mai, e guadagnano delle cifre che me li fanno sempre ammirare.

Quindi, se razionalmente so che sono utili, che rimediano alla genetica che mi vuole con i denti piccoli che si rovinano subito e con questo carattere isterico che scarica “stress autoindotto” sempre su di me e troppo poco sugli altri, ammetto di non riuscire a vivere con serenità il loro incontro.

Proprio per questo parto dalla mattina, di solito mi prendo un giorno di ferie e me ne sto a casa per prepararmi psicologicamente all’appuntamento, iniziando col cercare di dormire il più possibile.

Naturalmente, il giorno che ti prendi le ferie ti chiamano tutti alle otto per qualche motivo, ma se riesci a non innervosirti e a riaddormentarti ci sono buone possibilità di arrivare fin quasi a mezzogiorno senza episodi psicotici rilevanti, se non si considera per esempio il riordino dell’armadio.

In queste occasioni infatti vengo presa da una smania lucida di ordine, quindi parto dalle mutande, che vengono divise per colore, e poi passo al resto della biancheria, allo scarto dei pantaloni e delle magliette che non mi vanno più e che è inutile conservare, allo smontaggio delle scatole delle scarpe che mi fanno ricordare accessori dimenticati. Nei casi gravi passo alla libreria, ma di solito è quando devo sistemare una carie o peggio.

Una volta riassettato mi dispongo davanti alla tv e mi concentro su serie televisive o su saghe di film. Il trucco è guardare l’intera stagione o le trilogie di seguito, alzandosi solo per andare in bagno o prendere cibo preconfezionato dal frigo, anche perché allo scadere delle 4 ore antecedenti all’appuntamento smetto di mangiare per i noti problemi citati sopra.

A volte aggiungo il ricamo o coloro qualche colouring book per garantire un totale svuotamento della testa mentre mi scorrono davanti le immagini e io vegeto sul divano, o a letto, finché la sveglia posizionata a due ore prima mi avverte che devo rendermi presentabile.

La doccia dura in media quaranta minuti, spero forse inconsciamente che mi escano le branchie e che si risolva il mio terrore di rimanere soffocata dalla mia stessa saliva.

La vestizione implica tre cambi, finché non ripesco qualcosa che avevo buttato perché almeno se si macchierà di sangue non sarà un dispiacere.

Il viaggio, se fatto da sola implica telefonate disperate a persone care in cui si lasciano le estreme volontà e si raggiunge un livello di lamento simile al canto delle balene, se fatto in compagnia comprende un’espressione luttuosa ed afflitta circondata dal silenzio come un sudario.

L’attesa nella sala d’aspetto comprende almeno tre visite al bagno nell’arco dei quindici minuti prima del mio turno per esprimere il mio nervosismo anche dal punto di vista intestinale.

Infine l’incontro col carnefice assume diverse sfaccettature, a seconda della gravità della situazione della mia bocca e della bravura del medico. Ci sono stati casi drammatici in cui il medico ha rimpianto di avermi come paziente, ed altri invece che, a parte un po’ di tensione iniziale, tutto è filato liscio come l’olio.

Eppure la caduta nell’Inferno ha una risalita, il momento in cui metto a terra il piedino e scendo da quella sedia, anche se l’anestesia non ha fatto effetto durante tutto il tempo ed invece ora sento metà della faccia come fosse diventata di gelatina, credo che assomigli a quello che si prova quando si mette il piedino sulla nuvola del Paradiso: la paura è stata tanta, ma pure per questo giro ci siamo salvati.

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