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La musica che cambia ma alla fine resta uguale


cage

E’ arrivato il tempo di fare il cambio dell’armadio e io, pur di non farlo, mi sono organizzata un weekend fitto di appuntamenti che mi rendesse troppo impegnata per evitarlo.

Ma il piano diabolico mi si è rivoltato contro quando, nella foga di organizzare, decido di andare a vedere un concerto che si preannuncia pieno di musicisti che mi piacciono e culturalmente stimolate senza approfondirne la scaletta.

Certo, avrebbe dovuto insospettirmi il fatto che l’evento fosse presentato con una release (cfr. comunicato) di più di venti parole, che i musicisti in questione si “erano riuniti per l’occasione”, che nel suddetto comunicato la parola “ricerca” era ripetuta più di una volta. Ma sono stata superficiale ed ottimista, due attitudini che mi portano sempre e solo guai.

Visto che le premesse erano delle migliori, sala non tanto grande, posti ottimi, palco attrezzato per almeno sei musicisti più un quintetto di fiati sul fondo, vedo anche una scenografia con un tavolino da bar e due sedie, mi siedo pregustandomi una sana serata di musica dal vivo fatta da musicisti strepitosi.

In particolare, mi aspetto di sentir suonare un chitarrista che per me è il migliore d’Italia, e che è stato alla fine la causa dell’attenzione su quel concerto, quindi guardo la postazione dove dovrebbe stare lui, testimoniata dalla presenza della chitarra in bella vista, e ho già la acquolina in bocca.

L’umore è tanto positivo che non mi irrito perché ho davanti un bambino iperattivo con la poltrona che cigola ad ogni movimento, e vi assicuro, si muoveva tanto, né mi agito perché ho a fianco uno che potrebbe essere Freddy Krueger prima dell’incendio, un ragazzo con il maglioncino a righe rosso e nero, i capelli lunghi e biondissimi fino alle scapole, gli occhi da matto e le mani piene di anelli improbabili, quindi nell’insieme un po’ inquietante, che si agitava pure lui come un bambino di dieci anni.

Il mio umore non viene scalfito neanche dall’introduzione che fa uno dei musicisti, che inizia spiegando che sarà una serata “particolare” dedicata ad un altro musicista di cui suoneranno i pezzi ma che io, nella mia beatissima ignoranza, non conosco.

Mi agito però quando entra la cantante e inizia a urlare. Ok, detta così non sembra una cosa grave, molti cantanti urlano al posto di cantare, ma di solito urlano parole, frasi, insomma cose che capisco, non fanno gorgheggi che al mio orecchio inesperto sembrano di una gallina che viene strozzata. Mentre guardo lei che accompagna il tutto con smorfie che vorrebbero denunciare aspirazioni da attrice, ci metto circa quattro minuti per capire che quella performance (cfr. ora la chiamo performance, sul momento era più: “momento brutto che non avrei mai voluto vedere”) segue uno schema sonoro riprodotto in una proiezione alle spalle proprio della cantante. Uno schema lunghissimo, fatto di fogli e fogli che volavano per il palco una volta superati, e di cui ho visto la fine quando ormai avevo perso le speranze.

Ma è quando iniziano a recitare versi senza senso che mi abbandono al panico prendendo piena coscienza che quello a cui sto assistendo non è un concerto come gli altri, e soprattutto non è il concerto che avevo immaginato io.

Eppure non mi posso alzare e non me ne posso andare perché devo vedere come andrà a finire questa storia, la premessa era stata abbastanza vaga da farmi sperare che magari ad un certo punto avrebbero smesso di fare quello che stavano facendo e avrebbero iniziato a suonare veramente. Inizio anche a chiedermi come mi sarei dovuta comportare se fosse arrivato un ipotetico intervallo (sempre che lo avessi riconosciuto come tale visto il non senso di quello che vedevo): scappare o rimanere perché magari lo spettacolo era diviso in due parti: la prima per intelligenti e la seconda per normali?

Mentre penso queste cose, lentamente il panico si ammorbidisce e viene sostituito dall’amarezza, che arriva quando accetto con rassegnazione che in quella serata nessuno suonerà. O meglio nessuno farà musica come la intendo io perché stanno “suonando” i testi di questo genio avanguardistico degli anni Settanta.

Tutti i musicisti, ovvero persone talmente brave a saper usare uno strumento musicale che possono viverci, hanno passato la serata a produrre suoni nel senso letterale del termine, quindi a strusciarsi i microfoni addosso, picchiettare sugli strumenti, grattare gli spartiti, eseguendo un concerto di rumori che, secondo loro e secondo il genio che l’ha pensato, doveva dimostrare come la musica è in ogni cosa. E forse per questo il bambino davanti a me smette di fare cigolii, che non potrebbero disturbare in quel caos, e Freddy junior a fianco a me entra in deliquio ogni volta che una finta interferenza di cellulare ai microfoni si inserisce nell’insieme.

Quando la cantante inizia a fare gli aeroplanini con gli spartiti cercando di farli volare sulla platea penso di essere veramente negli anni Settanta anche io, ma non in America, bensì in un film di Alberto Sordi. E mi chiedo quale sia la vera motivazione dello spettacolo, forse ormai si sentono talmente bravi da dover dimostrare di essere pure intelligenti?

Anche il comportamento del chitarrista fa aumentare i miei dubbi, infatti si fa scappare tre accordi perché pure lui si vedeva che non ce la faceva più a grattare le corde. In quel momento ho avuto una stretta al cuore pensando a quando sono ristrette le mie vedute, o a quando sono disperati loro, che per suonare qualcosa per loro di “diverso” gli tocca inventarsi di essere contemporanei presentando le avanguardie di quarant’anni fa.

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