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Liberty. Uno stile per l’Italia moderna


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Se vi capita di andare in Emilia Romagna magari per godervi un po’ di mare, per andare a vedere i mosaici di Ravenna, o per mangiare qualcosa di buono, vi consiglio di fare una fermata a Forlì, per vedere un evento promosso a livello nazionale mesi e mesi prima che aprisse le porte, ovvero la mostra “Liberty. Uno stile per l’Italia moderna” presso i Musei di San Domenico.

La mostra ha aperto il 1 febbraio 2014 ed io ho letto la notizia verso dicembre 2013. Sempre in quel periodo, ho trovato cartoline pubblicitarie in Piemonte, al confine con la Val d’Aosta, in un albergo in mezzo alle montagne, per dire come è stata capillare la campagna pubblicitaria.

Ho aspettato che arrivasse un momento propizio per organizzare il weekend e sono riuscita a partire, con l’unico scopo di vedere questo evento dedicato ad uno degli stili che più mi affascinano e che si proponeva come una sorta di “esposizione definitiva”, che mi avrebbe finalmente fatto capire l’essenza di questo stile, sfuggente e sinuoso come le linee che lo contraddistinguono.

Ma invece, come mi insegnano altri fatti della mia vita, non bisogna mai farsi delle aspettative.

Il complesso di San Domenico è veramente uno spazio bellissimo, restaurato in modo completo, ha ottime superfici che si prestano perfettamente per una grande esposizione con grandi pezzi.

E proprio i pezzi mi hanno dato grande soddisfazione, ancora più belli dello spazio, qui ho visto dei quadri di Aristide Sartorio che mi hanno lasciato senza fiato, schizzi e locandine che mi sarei messa in borsa e avrei rubato, ad avere una borsa 100×200 cm. Ho visto Preraffaelliti, Simbolisti, Romantici, Modernisti, Divisionisti ma, sinceramente, non ho capito niente del Liberty, tranne che forse i confini che si vogliono dare agli stili tra Ottocento e Novecento non esistono.

Ovvero, c’erano opere di tutti quelli che sono nei musei e hanno lavorato tra la fine dell’Ottocento e la fine degli anni venti del Novecento, ma di quello “stile floreale” che ha caratterizzato soprattutto le arti applicate ovvero mobili, vetri, ceramiche, c’era ben poco.

Nelle prime sale, al piano inferiore, mi è sembrato di vedere la luce, quando ho trovato gli schizzi dell’architetto Antonio Sant’Elia, opere di Domenico Beccarini, una parte dedicata all’editoria e alla grafica, ma poi, quando ci siamo spinti verso i mobili, ho iniziato ad avere il sospetto che non avrei avuto quello che volevo. I pezzi si sono diradati, per non dire ridotti, mentre la sicurezza l’ho avuta quando ho visto il quadro “Sogni “ di Vittorio Matteo Corcos appeso in un angolo in una sorta di ricostruzione di una stanza liberty degna del  Museo delle Arti e Tradizioni di un paese di provincia. La stupenda ragazza che racconta l’artista livornese appassiva come i petali ai suoi piedi, messa sotto luci orride che  gridavano vendetta.

L’idea che però ha vinto il premio dell’anno “In quel momento mi sembrava una buona idea” è stata quella di posizionare l’immagine istituzionale della mostra, quella che appare sulla cartellonistica per intenderci,  di spalle rispetto al percorso della mostra, ovvero il visitatore, dopo aver visto tre quarti dell’esposizione, quindi essendosi pure scordato che c’era, ritrova le favolose tre donne che rappresentano il trittico “L’Enigma Umano” di Giorgio Kienerk posizionate sul retro di un pannello rispetto a quello che vede entrando nella sala: per la serie “Cavoli, questi non avevi pensato tu ad appenderli? Vediamo dove possiamo piazzarli”.

Ora, è vero che c’erano nomi di prestigio maggiore di Kienerk, è vero che c’era tanta roba da esporre, è vero anche che le idee in alcuni momenti si possono confondere, ma non ho capito perché, una volta aperta la mostra, l’immagine sia stata abbandonata al suo destino, tanto da non citare neanche il nome dell’autore nel sito ufficiale dell’esposizione, o almeno io non l’ho trovato in modo immediato.

Eppure i colori dell’allestimento erano belli, mi è piaciuto quel celeste wedgwood  delle pareti, le didascalie pulite, i pannelli grandi per ogni sala che cercavano di giustificare questo percorso che parla un po’ di tutto.

Parla talmente tanto da arrivare a dedicare una sezione alla pittura di paesaggi montani, posizionata dopo una galleria di strepitose nobildonne che rappresentano proprio quell’alta società Italiana che nei primi del Novecento sostiene lo sviluppo delle arti con la realizzazione di villini, mobili, ritratti, oggetti che nel bello hanno la propria essenza.

Una dicotomia forte non solo col tema generale del liberty, che forse ha ben poco a che fare con le solitudini attonite delle vette, ma anche con lo spaccato vitale dei ritratti ammirati poco prima.

Insomma, sorvolando sul catalogo, che rispecchia le scelte della mostra e non riporta le schede scientifiche dei pezzi, grande peccato visto che molte opere soffrono di una bibliografia scarsa nonostante la loro qualità, mi rendo conto che il vero tema della mostra dovrebbe essere la “Bellezza”, con la “B” maiuscola, perché questo era il vero tema di quegli anni. Ogni artista ha cercato la sua “Bellezza” e l’ha realizzata, spinto da una società che l’apprezzava, la ricercava e la valorizzava.

Quello che potremmo imparare andando a Forlì è che abbiamo perso questo spirito che avevamo un secolo fa, che la nostra società non guarda più all’arte come una cosa del quotidiano, e non cerca più l’armonia delle forme e delle immagini.

I nostri artisti parlano sempre più spesso di sofferenza e di disperazione,  ma non perché vogliano farlo, bensì perché siamo noi che glielo chiediamo.

Eppure, quando ci troviamo di fronte alla Sirena di Giulio Aristide Sartorio ritroviamo una memoria che sembrava persa: la memoria delle cose belle, che sono giuste, che sono sane, e che fanno stare bene.

Quindi, se vi capita, fate un salto a Forlì, non leggete le didascalie, non leggete i pannelli, guardate e basta, perdetevi e ritrovate quello che non ricordavate di avere.


 Per vederla:

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