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Natale 2020


Nessuno ha mai visto Natale in casa Cupiello, ma tutti conoscono lo scambio di battute tra il padre che chiede: “Te piace ‘u presepio?” e il figlio che risponde “No, ‘u presepio nun me piace”.

Questo dialogo riassume in pieno lo scontro generazionale che si vive da sempre, tra quelli che pensano che il Natale sia fatto di tradizioni imprescindibili e quelli che invece lottano costantemente per il “progresso”, inteso come cambiamento definitivo dei modelli del passato.

Oppure significa che c’è gente a cui piace fare il presepe e gente a cui non piace.

A me piace, anche se mi scoccia. Mi scoccia perché non posso più andare in campagna a fare il muschio fresco, e senza il muschio fresco il presepe non mi diverte. Mi scoccia perché non riesco mai a organizzare e realizzare il “Progetto Presepe”, perché il presepe non è come l’albero, in cui hai solo due scelte: o decidi di farlo di colori precisi o lo fai multicolori. Le possibilità del presepe invece sono infinite, puoi variarlo non solo nelle dimensioni, ma anche negli stili delle statuette, dargli coerenza spaziale o cronologica.

Insomma nel presepe racconti una storia, nell’albero la decori.

E anche quest’anno non sono riuscita a fare il mio “Progetto Presepe”, o almeno non all’inizio, nel senso che ho montato quello che avevo con poca convinzione e rapidità e sono rimasta a contemplare questa storia scritta male, in modo svogliato, che avevo allestito. Allora ho iniziato, pigramente, a pensare delle soluzioni. Il primo grande problema era l’assenza di muschio, sopperita con quella strana carta marrone maculato che simula la terra, o le montagne se l’arricci. Il secondo era la mancanza di vivacità, anche il pastore addormentato sembrava troppo addormentato, ci voleva qualche cosa che creasse interesse: un pozzo, una fontana, magari delle costruzioni.

Ho iniziato a valutare le soluzioni di Amazon, ma ero pigra anche per decidere on-line. Così l’ho lasciato là, a macerare, dall’immacolata a circa dieci giorni prima di Natale. A quel punto avevo raccolto un po’ di forze emotive per prendere la decisione di passare dal mega-cinese fornitissimo e trovare là una soluzione a basso costo che mi avesse permesso di svangare anche questo Natale, ma ci ho messo altri cinque giorni per decidermi ad andare.

Arrivata in questa caverna piena di meraviglie mi addentro negli stretti corridoi di un negozio cinese che sta a Roma ma potrebbe stare pure a Shangai, schivo brutte ciotole, un mare di ciabatte, un reparto luci che manco la Nasa, ed arrivo ad un lungo scaffale pieno di statuine brutte, fatte chiaramente da buddisti o taoisti. Naturalmente scarto l’ipotesi di un’integrazione dei personaggi, anche quest’anno la sceneggiatura sarà basata su una composizione da “Sei personaggi in cerca d’autore”, del resto se lo ha fatto Pirandello chi sono io per dire che non è il numero perfetto per un dramma?

Proseguo nell’analisi dello scaffale e trovo una serie di casette in carta dal prezzo interessante: 3 euro e 50. Piccole riproduzioni di un mondo campestre che ritroviamo nei quadri della campagna romana della fine dell’Ottocento e che ricorda un paesaggio un po’ rustico ma nello stesso tempo decadente. Certo, la mancanza di luci efficaci all’interno del negozio aumenta di molto la poesia dell’oggetto, che rivisto stamattina sembra realizzato dai bambini della materna sotto casa mia con gli scarti dei cartoni dei cereali.

Ma torniamo allo shopping. Presa quindi da questa vena poetica penso che il gruppo di casette, comprensivo di mini-fontana naturalmente vuota, potrebbe fungere da sfondo, anche se la dimensione ridotta implicherà il posizionamento in prospettiva per dare l’illusione di un paesaggio lontano, e quindi via nel cestino. Seguono una sfilza di abetini innevati di tutte le taglie, e qui gioisco perché li ho presi l’anno scorso, quindi ad alberi sto a posto. Arrivano poi gli animali, pecore, cani, mucche, serie di polli e anatre, ma sono troppo brutti, il mio senso estetico ha già concesso tanto alla casetta, sulle statuine sono troppo esigente.

Segue una serie di utensili tra cui una varietà infinita di piccoli vasi in terracotta. Ora la dimensione è sicuramente sproporzionata rispetto alle mie statuine da 10 cm, ma ho sempre una formazione da archeologa, quindi non posso fare a meno di comprare delle piccole giare che mi ricordano le anfore etrusche.

Ma è alla fine dello scaffale che trovo l’illuminazione, dovuta anche al colore assolutamente innaturale che ha: il muschio sintetico. Contenuto in piccole bustine mi ricorda quel muschio che usano per le composizioni sulle pareti, certo è di un verde innaturale, sembra del cotone idrofilo radioattivo, ma in quel momento, vista la grande mancanza numero uno (cfr. il muschio vero), mi è sembrata una buona idea.

Ora, sul tema “mi è sembrata una buona idea”  clicca qui e devo dire che anche questa volta non mi sono smentita.

Torno a casa e inizio ad apportare le migliorie al progetto, sposto le statuine, posiziono la casa, doto la fontana di un pezzetto di alluminio per simulare l’acqua, decido i luoghi dove mettere i vasi e alla fine apro il muschio. Vengo sopraffatta da una puzza mai sentita prima, un misto di chimico, vernice, morte e radiazioni (se le radiazioni dovessero avere odore). Ho circa quindici secondi di panico poi decido che è solo perché era chiuso, infilo la mano nella bustina e ne tiro fuori un po’ per posizionarlo tra le statuine.

Scopro che anche la consistenza è tremenda, molliccia e umida, così decido di buttarlo a casaccio per finire il prima possibile. Il risultato è una sorta di campo di erba alta ricciuta in cui affondano pecore e pastori, e non sarebbe neanche male se non fosse per l’odore.

Sono infatti passati 10 minuti e l’odore non se ne va, anzi, peggiora. Fosse almeno odore di palude sarebbe coerente con la resa dei ciuffetti, invece è proprio qualche cosa di misterioso, evocativo di esperimenti chimici andati male, contaminazioni sospette, Apocalisse.

Decido di resistere fino al giorno dopo dandogli la possibilità di stare all’aria, del resto mi era successo con un tappeto, riaperto sembrava ci fosse morto dentro un procione, dopo un giorno aveva perso quell’olezzo.

Quindi faccio passare la notte e il giorno dopo mi ripresento davanti al presepe. Sul momento ho quasi la sensazione che il problema sia risolto, ma sono solo i secondi che mi separano da un’esposizione più prolungata: puzza come il giorno prima, è indiscutibile.

Davanti all’evidenza dei fatti c’è poco da fare, è inutile nascondersi dietro un dito, ho fatto un’altra giovannata. Quindi mi armo di guanti, perché non lo voglio più toccare, di una busta e come fosse un’invasione di blatte mi accingo a toglierlo tutto.

Naturalmente il maledetto fa resistenza, si sfraffa e lascia polvere e residui dappertutto, ma io non cedo e, sprezzante del pericolo, lo butto senza esitazione nella busta, che chiudo sperando che non riesca ad uscire per poi posizionarlo nell’indifferenziata (non si può dire carta, non si può dire plastica, è un materiale che non esiste secondo me e quindi non riciclabile).

A questo punto ammiro quello che rimane del presepe: il pinguino (si, c’è un pinguino, risponde alla regola per fare il presepe n. 33: che ci sia una statuina fuori contesto per creare simpatia e discussione, insomma è l’equivalente dell’amico strambo e divertente nelle serie tv) mi fissa davanti alla devastazione che ho lasciato: pecore a pancia all’aria, pastori stravolti e fuori posto, materiale polveroso di dubbia provenienza dovunque.

Un’ambientazione apocalittica, molto in tema con quello che sarà il Natale 2020.

Se siete arrivati alla fine dell’articolo Buon Natale lettori miei, vi voglio bene più di quanto ne voglia al pinguino.

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