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Non aprite quella porta – Cercasi casa disperatamente parte II


Non ce la faccio, non posso tenere per me questi episodi della mia vita, devo condividerli con voi, ho bisogno di farli uscire e girare per il mondo, perché il mondo deve sapere quanto è duro e frustrante cercare casa.

Si, sto ancora cercando casa, sono arrivata a livelli folli, tipo uno o due appartamenti al giorno, che per una che lavora nove ore al dì, converrete essere un miracolo. Mi sdoppio correndo da un capo all’altro della città saltando la pausa pranzo, uscendo di corsa dal lavoro la sera per raggiungere l’ultimo appuntamento della giornata, in un vortice di telefonate, appuntamenti, indirizzi e agenti immobiliari, che mi sta abbrutendo tanto da farmi sembrare Lord Voldemort (cfr. per chi non lo sapesse, il cattivo di Harry Potter, con la faccia da serpente senza naso e capelli).

Ma non serve a niente: più giro, più vedo, più parlo con gli agenti immobiliari e peggio sto. Non solo perché questa benedetta casa in affitto non si trova (cfr. 50 mq a massimo mezz’ora da via del Corso, centro di Roma), ma soprattutto perché inizio ad abbandonare la speranza di trovare un tetto con quattro mura e mi ritrovo, sempre più spesso, a fissare gli archi del ponte dell’Isola Tiberina che mi appaiono come una dolce soluzione ai miei problemi.

E non pensate che stia esagerando, la situazione sta assumendo veramente toni irreali e allarmanti. Per farvi capire vi riporterò una brevissima cronaca dei miei ultimi incontri. Inizio con l’agente immobiliare in astrakan, si, avete capito bene, in astrakan. Appartamento in centro, strada poco trafficata, sotto il palazzo c’è una vineria che mi hanno segnalato come molto carina, certo, io non bevo, se questo è il punto forte della zona siamo a cavallo.

Con 10 minuti di ritardo, e vi ricordo che per me 10 minuti sono tanti in questo vortice di appuntamenti che si susseguono, arriva un signore brizzolato dall’aria sudamericana (colore della pelle olivastro, lineamenti decisi, accento chiaramente non italiano) che mi porge la mano salutando. Io stringo la mano e mi dimentico dell’appartamento, perché rimango a fissare il suo cappotto nerissimo e lungo fino al ginocchio che si staglia su dei pantaloni di un bianco immacolato. Il signore indossa con orgoglio un pellicciotto ottenuto “con le pelli del karakul, una pecora nera originaria dell’Asia centrale” (cit. wikipedia) che si chiama appunto astrakan e che mi ricorda la pelliccia di mia nonna. Il tutto sotto il sole dell’ora di pranzo, che dava un effetto lucido e quasi vivo al capospalla. Il resto della visita è stato condizionato dal mio interesse sociologico per una persona che si mette la pelliccia di mia nonna addosso, quindi non mi sono lamentata troppo della mancanza di ascensore e della poca luminosità dell’appartamento, che quasi mi è stato simpatico nell’insieme.

Anche perché, se parliamo di poca luce, il premio lo vince un appartamento al secondo piano di un tranquillo palazzo via Nomentana, che io ho ribattezzato la “cantina al secondo piano”. L’immobiliarista è stato onesto da subito, mi ha anticipato al telefono che l’appartamento era “un po’ buio”, ma io ho la politica di vedere qualsiasi cosa, perché nei miracoli continuo a crederci. Appuntamento alle 9 del mattino, per verificare il problema luminosità, e devo dire che definirlo un problema è stato riduttivo. La zona mi piaceva, comoda e commerciale, il palazzo discreto, primi novecento, il condominio accettabile, poi arriviamo al piano e ci fermiamo, appena usciti dalla porta dell’ascensore, davanti a quella dell’appartamento.

L’agente decide che è meglio che prima lo veda da fuori, si avete capito bene, mi fa girare intorno al muro e mi mostra una finestra che indica come quella dell’angolo cucina (stiamo parlando di un bilocale con cucina a vista) che si apre su un ballatoio e un altro muro, stile cella carceraria. Poi mi riconduce davanti all’ingresso e, sospirando,  apre la porta.

Io non vedo niente, e mi inoltro in questo antro dietro a lui che tenta di aprire la famosa finestra vista da fuori, perché, naturalmente, il padrone di casa è troppo tirchio per tenere la luce nell’appartamento sfitto. Così l’agente apre la finestra e… rimane tutto uguale, buio uguale, non entra neanche un filo di luce. Lui allora corre verso la camera da letto, dove una finestra normale, con un affaccio normale, permette al sole di entrare.

Così, grazie alla luce indiretta, riesco ad individuare le dimensioni della stanza in cui mi trovo, la porta di un bagno, cieco pure lui e non visitabile perché non c’è modo di vederlo, ed un’altra finestra, che scopro aprirsi proprio davanti all’ascensore, a fianco della porta d’ingresso.

Che dire? La camera da letto era una stanza normale, con una luce resa più forte forse dal buio in cui mi trovavo, mentre il salotto era l’equivalente di una cantina al secondo piano. E la cosa divertente è che per dormici avrei comunque dovuto versare al proprietario l’equivalente di uno stipendio medio.

Il colpo di grazia però me lo ha dato l’ultimo appuntamento, preso alle 19, quando ero devastata da una giornata particolarmente stressante, in un quartiere lontanissimo da dove abito attualmente. Dopo i convenevoli di rito, il sorridente agente immobiliare mi conduce verso le scale che affiancano l’ascensore e mi dice “purtroppo dobbiamo salire a piedi, l’ascensore ha la chiave e la padrona ancora non ce l’ha fornita”. Io non posso certo dire di no, mi accodo e scopro che i piani da fare sono tre, e naturalmente quel giorno ho messo il maglioncino di cachemire che mi fa “fare le bolle” ovvero, in gergo romano, crea un effetto sauna sotto il cappotto che mi fa sudare in modo indegno.

Arrivo cercando di darmi un contegno e pensando a Stieg Larsson,  il vero motivo per cui cerco sempre di prendere l’ascensore. Non so se sapete infatti che lo scrittore svedese autore della trilogia “Uomini che odiano le donne” ha avuto un successo molto tardivo, e proprio quando iniziava a godere dei frutti del suo lavoro non è sopravvissuto alla salita a piedi degli undici piani che lo dividevano dalla sua casa editrice. Si è sentito male perché l’ascensore era rotto, è morto, ed ora i diritti d’autore se li godono altri. Io non ho diritti d’autore, ma faccio azione preventiva qualora dovessi averli un giorno.

Intanto l’agente armeggia con la chiave senza riuscire ad aprire, dopo qualche minuto ed il dubbio che le chiavi fossero sbagliate, riesce a far scattare la serratura, e mi preparo a vedere un appartamento che dalle foto mi è piaciuto molto.

L’uomo fa per accendere la luce e questa non scatta, attimo di silenzio. Guardiamo insieme il contatore alla luce del pianerottolo e vediamo il nastrino del taglio dell’elettricità. Un altro appartamento senza luce, e questo di notte. Iniziano le scuse, lui non lo sapeva, nessuno lo aveva avvertito, mi aveva fatto fare tre piani a piedi…e mentre ripete come un mantra queste frasi cerca disperato di aprire le finestre ed illustra un altro antro buio in cui riesco a distinguere un letto, un divano, un armadio. E metto il piede su una mattonella saltata. Indizio della condizione di un appartamento che costa addirittura come due stipendi medi.

Ma la cosa che mi inquieta in quel momento, non sono i tre piani a piedi e il bagno di sudore, non è stare nuovamente al buio con uno sconosciuto, non è che la casa, pure al buio, è pessima, è che non mi sembra quella che volevo vedere. Quella per cui avevo fatto il viaggio aveva il soppalco e in quegli ambienti, di soppalchi, non ce n’era traccia.

Cerco di bloccare il fiume di parole che disperatamente si impegnano a descrivere quello che non si vede, e solo dopo circa cinque minuti lui sembra accorgersi che gli sto parlando e si ferma ad ascoltarmi. “Scusi, “ dico con un tono troppo gentile per la situazione “ ma io credo che questa non sia la casa che volevo vedere, quella che ho visto sul sito aveva il soppalco”.

Intravedo uno strano luccichio nel buio che proviene dai suoi occhi, non so se comprensione o follia. Inizia a dire che non ha appartamenti con soppalco in affitto, io gli cito tutti i siti immobiliari dove l’ho visto. Discutiamo per altri cinque minuti finché si illumina, sempre nel buio, e mi fa: “Ma lei parla di quello in via…, e allora perché stiamo qui?

Chiunque meno stanco di me gli sarebbe partito di capocciata dritta sul naso, ma io ero fiaccata dalla giornata, dalle settimane prima, dai tre piani di scale con annessa sudata, e dall’idea che per tornare a casa ci avrei messo un’ora e mezza. Mi sono limitata a rispondergli “E lo chiede a me?”

Così ho fatto tre piani a piedi per vedere un appartamento al buio che non era quello per cui ero venuta, ci ho messo veramente un’ora e mezza per tornare a casa, ma alla fine di tutta questa storia ho trovato ad aspettarmi la lasagna di carnevale. La mitica lasagna che contiene qualsiasi cosa commestibile e viene realizzata in casa Pimpinella con la pasta tirata a mano una volta l’anno, ed ho capito che forse un altro po’ ce la posso fare, per ora.

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