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Scene di vita romana di Umberto Bottazzi


Le belle scoperte si fanno per caso, e un nome che viene sempre citato insieme a quello di tanti altri molto più famosi e familiari all’improvviso diventa una sorprendente scoperta. Quel nome è Umberto Bottazzi, un artista che, tra fine Ottocento e primi Novecento, non si dedica solo alla pittura, ma a tutte le arti, dalle vetrate all’architettura, progetta case con i loro interni, dipinge, realizza ceramiche, illustra riviste che sono pietre miliari per lo sviluppo del Liberty e delle arti decorative in Italia.

Eppure, di fatto, nessuno lo conosce veramente. Citato sempre insieme a nomi più illustri, come Duilio Cambellotti, ricordato come esponente del movimento Secessionista romano, in realtà non ha un volto, non ha una storia che non sia quella frammentaria che si può ricostruire parlando di altri. Per fare un esempio, lo si incontra tra le vetrate della Casina delle Civette, come il disegnatore della vetrata dei pavoni, che tutti non manchiamo di ammirare ma che spesso pensiamo che sia appunto di Cambellotti.

E quindi è un destino strano quello di Bottazzi, che si muove tra le pieghe degli studi, come una bottiglia che contiene un messaggio e che appare e scompare tra le onde.

Così, per caso, ho avvistato questa bottiglia nel mare di una mostra, tra quadri più o meno belli, e per un attimo ho fatto come di solito si fa davanti alla vetrata dei pavoni: bello, interessante, ma che altro c’è in giro? Poi però sono tornata indietro, ho iniziato a seguire il movimento della bottiglia tra le onde, il suo cadere nei flutti e riemergere, da un’altra parte, più distante, imprevedibile, e mi sono innamorata, di nuovo, di un altro artista poco conosciuto.

Così ve lo presento, questo mio nuovo innamorato, con il quadro che ho incontrato: “Scene di vita romana- La fontana delle tartarughe”. Realizzato nel 1930, due anni prima della morte,  mostra una sorta di salotto all’aperto dove si incontrano due tipi distinti di donne, da un lato la madre borghese, che porta a spasso la figlia che le guarda incuriosita, dall’altro delle signorine forse poco rispettabili, vista la testa scoperta e il braccio nudo in primo piano, che si godono il fresco vicino alla fontana.

Le donne sono accomunate da un abbigliamento comunque elegante e reso con raffinatezza e attenzione tanto da far diventare gli abiti protagonisti importanti sia della tecnica usata che della composizione. Alle spalle la fontana che non butta acqua, mentre i sampietrini, anche allora sconnessi e pieni di buche, creano una fuga verticale che prosegue nelle righe dell’abito della signora con il cappello.

Fulcro del dialogo dei personaggi è la meravigliosa espressione di quest’ultima, un misto di livore e invidia, sintesi efficacissima di quel giudizio bigotto e ristretto che gli artisti come Bottazzi hanno combattuto tutta la vita. La donna seduta ricambia lo sguardo senza timore, con il mento alto, una posa decisa e rilassata, mentre la più giovane, seduta ai suoi piedi, volta la testa e guarda in un angolo, perché non è così forte, ancora si vergogna, ancora non sa resistere alla disapprovazione muta che cerca di travolgerla.

I particolari contribuiscono ad aumentare una sorta di vividezza delle forme, come l’invenzione del muso del levriero, che si pone tra le due donne in un linea orizzontale che copre il bordo della fontana e aumenta la loro vicinanza fino quasi a unirle visivamente.

Bottazzi quindi accentua il senso di l’immobilità con la fontana ferma alle loro spalle, per rendere ancora più forte l’emozione di chi guarda quella che è una meravigliosa rissa muta.

Un’immagine immobile che invece sottende uno strapparsi di capelli, uno scambiarsi insulti, un movimento concitato e rumoroso immaginato tutto nella testa delle protagoniste.

E alla fine ci rendiamo conto di vedere, attraverso le tre donne che si incontrano in una piazza del centro storico di Roma, lo scontro sociale che ogni giorno si viveva e si vive in questa città, dove ognuno vuole avere il suo posto e tutti guardano, e giudicano, quello dell’altro.

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